Pierfederici Recensore
Pierfederici Recensore
Il canto stonato della sirena
di Monica Florio
ed il Mondo di Suk
Un canto melodioso in difesa degli emarginati
È una scrittura immediata ed essenziale a rendere piacevole e chiara la lettura della raccolta di racconti “Il canto stonato della Sirena” di Monica Florio (Ilmondodisuk Libri, pp. 144, € 13,00). Man mano che il viaggio attraverso questa “città smarrita” procede, emerge sempre di più una profonda conoscenza della realtà che ha ispirato i contenuti narrativi, ricreata con autentica partecipazione, e di cui l’autrice traccia un disegno, che è ora lieve e sfumato, e cela talvolta una sorprendente rivelazione finale (“Come anime gemelle” e “Il monaco”), tanto più eloquente quanto più ne è soffusa la tinta; e ora netto quanto un taglio che penetra fortemente nelle emozioni di chi legge.
Il disegno dai contorni soffusi caratterizza ad esempio “Il segreto”, quadro adolescenziale di estremo realismo ma proiettato nell’aura di ricordi ormai lontani, nel quale l’approfondimento psicologico fa da sfondo ad un’apparentemente normale vicenda scolastica, aprendo unosquarcio inquietante sui cosiddetti “bravi ragazzi” che, non di rado isolati dal più ampio contesto dei gruppi giovanili, per equipararsi alla maggioranza e uscire dalla propria emarginazione, assumono talora comportamenti esagerati e a volte irreparabili. Fortunatamente l’azione di Sabina non è così grave ma il messaggio dell’autrice ha implicazioni precise: dall’emarginazione (che può riguardare chiunque si distingua, anche in senso positivo, da una massa costituita) alla volontà di dimostrare, soprattutto a sé stessi, la propria capacità di essere come gli altri, ad una vera, possibile violenza il passo è brevissimo.
Invece, un disegno netto ed incisivo caratterizza “La scelta di Milla”, quadro di un realismo forte nel quale le esistenze si smarriscono in una spirale di egoismo e violenza, dalla quale emerge comunque sempre un flebile lume di speranza; e soprattutto “L’intrusa”, allucinata visione di una contrapposizione sociale ed umana che travolge, negandolo, il più forte eradicato degli affetti naturali, e che sembra quasi riassumere il senso complessivo dell’intera raccolta. Alla fine, pur nella tragica morte, è l’emarginata a vincere, diventando la vera protagonista del racconto e lasciando una traccia di memoria che supera le mediocri, insignificanti esistenze della società “bene”, che disprezza il diverso ma si smarrisce nella nebbia di un convenzionalismo arido e apatico, senza storia e senza futuro.
Questi due aspetti convergono a comporre con naturalezza una narrazione fluida sotto la cui trasparenza si cela un fondale misterioso, in cui ad ogni frase ci si attende la rivelazione di un mondo nascosto. Quasi senza accorgersene, il lettore non solo osserva una realtà descritta in brevi, significativi tratti, ma viene investito della necessità di soffermarsi a riflettere, e non di rado ha la sensazione di penetrare in essa quale ulteriore protagonista.
Molti di questi racconti suscitano interesse per lo svolgimento della vicendanarrata, il desiderio di sapere come proseguirà la storia, riga dopo riga, e la tentazione talora di darle un seguito con la propria fantasia, proprio perché stimolata dalla ricchezza di sorprese con cui l’autrice stupisce già dal primo racconto (che non a caso porta il titolo di “Ultimo”, forse a sintetizzare mirabilmente il famoso detto evangelico che sembra quasi la naturale chiosa di tutta la raccolta), ricchezza che si accompagna ad una vena di ironia che, anche quando suscita un sorriso, non manca mai né di amarezza né di consolazione.
Nulla di scontato caratterizza le vicende narrate in cui ci si può imbattere in un impiegato deluso e rassegnato (l’uomo comune nel quale tutti possono identificarsi) che diventa (o forse immagina di diventare) un eroe. In cui un autentico alito di vera poesia emerge là dove meno lo si aspetta, come nel racconto “Profumo di mimosa”, ricco di simbolismi inquadrati in un perfetto gioco di antitesi, ben evidenziate nella primacontrapposizione fra le due donne, separate dal vetro dello sportello pubblico ma soprattutto dalla propria condizione esteriore e interiore (e qui si rovescia il luogo comune, giacché quella che appare agiata e tranquilla è in realtà prigioniera di un sistema e della propria vanità, mentre l’emarginata è del tutto libera). Il gioco poetico prosegue contrapponendo le caratteristiche fisiche delle due protagoniste e il loro destino (la bionda, espressione della società “normale”, cade in un fosso e viene soccorsa dalla mora emarginata, in un simbolismo chiaro e non privo di richiami evangelici); il tutto accade in mezzo al fetido odore dei rifiuti abbandonati che diventa profumo di mimosa e gelsomino, a celebrare ad un tempo la bontà e l’azione affettuosa e istintiva della donna reietta: termina con un miracolo un racconto che è anch’esso un prodigio di poesia e di perfezione stilistica. E’ sempre la poesia che, nascosta, trasfigura nella rievocazione della memoriasituazioni dolorose causate da piaghe sociali o conflitti familiari: “Come ali di gabbiano” è avvolto in una penombra che cela i contorni della realtà, sfumata nel ricordo e in qualche modo rasserenata, come una fiaba a lieto fine dopo le terribili vicissitudini precedenti; “Innocenti evasioni” presenta invece l’osservazione multipla di una stessa vicenda, attraverso le diverse visioni che vi convergono quasi geometricamente e sulle quali brilla la poesia della luce infantile, simbolo di quell’innocenza in cui è riposta la speranza.
Nel libro tutto può essere ricondotto ad un’unica, fondamentale matrice, che è l’umanità, intesa, in senso latino, come tutto ciò che appartiene completamente, profondamente ed esclusivamente alla natura umana.
L’autrice infatti ritrae una galleria multiforme di personaggi dai caratteri ben definiti che, anche quando sono riconducibili a “tipi” sociali, presentano una tale verità ed originalità che pare di conoscere anche ciò che di loro non ci vienerivelato.
I protagonisti di questa ricca varietà di situazioni, vicende ed emozioni riconducibili alla medesima realtà sociale, richiamano alla memoria la splendida sfilata di personaggi osservati e ricreati da J. Joyce in “The Dubliners”, per la capacità della scrittrice di comporre in un mosaico variopinto un originale e indimenticabile ritratto di una città. Quella città ammaliante proprio come una Sirena e della quale tutti - anche grazie all’impegno di autori quali Monica Florio, che passa dal sorriso amaro ma mai rassegnato, all’osservazione disincantata, alla visione apocalittica volta a scuotere le coscienze, in cui l’uomo, in un allucinante ma familiare paesaggio da catastrofe atomica, incarna lo smarrimento di fronte alla ribellione della natura violentata dal progresso selvaggio (i rifiuti sommergono la città deserta; il cane, da sempre compagno fedele ed amico dell’uomo, si fa belva assassina) - ci auguriamo di risentire presto un nuovo, melodioso “cantointonato”.
di Alessandro Pierfederici
http://www.arteecarte.it/primo/articolo_new.php?nn=1727
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/il_canto_stonato_della_sirena.html
Donne alla ricerca di sé nel libro
“La bambola sulla sedia”.
di Mariacarla Rubinacci
ed. Statale 11
Un mondo soffuso di memorie giovanili accoglie il lettore del romanzo “La bambola sulla sedia” di Mariacarla Rubinacci (Statale 11 Editrice - Pianeta donne, pp. 138, 12€), caratterizzato sin dai primi capitoli da una scrittura delicata ed espressiva che evoca ricordi e immagini di una vita studentesca improntata ad una visione fiduciosa della realtà.
È un mondo quello delle due protagoniste, ritratti scolpiti da una mano abile nel sondare l’animo femminile, che, pur dovendo un giorno necessariamente confrontarsi con ciò che lo circonda, sembra quasi bastare a sé stesso, estromettendo dai suoi confini una realtà che solo a tratti penetra in quel nido. Gradualmente i caratteri delle protagoniste si delineano come complementari l’uno all’altro: tale diversità comprende tutte le possibili sfumature dei pensieri e degli atteggiamenti della vita studentesca, suscitando nostalgia in Lidia, la voce narrante, e nelle altre figure che popolano la storia, quasi avessero partecipato alla vita scolastica di ciascuno di noi, condividendone le aspirazioni, le ansie, i sogni, le delusioni.
La vicenda, proiettata nell’interiorità del ricordo come un’immagine che dal dettaglio si apre gradualmente ad un campo lungo e ad una panoramica, prende poi forma e svela la sua collocazione nella realtà attuale. Tale architettura narrativa, oscillante fra presente e passato, fa della rievocazione la parte attiva della storia e la spinge verso il suo nucleo essenziale, l’incontro di Lidia con Chantal (l’altra Lidia). Che la protagonista, nella sua volontà di rintracciare l’amica scomparsa attraverso una giovane che le assomiglia, stia cercando invece la parte nascosta e repressa di sé? Ciò che a Lidia è mancato, per pervenire alla totalità del proprio essere, era in Gisella, la cui scomparsa diventa così la perdita di una parte di sé ancora non rivelatasi, per cui, ad un certo momento, affiora inevitabile la necessità, quasi morbosa, di scoprirla e conquistarla.
La narrazione ritorna, quindi, nell’universo malinconico della memoria, acquistando un fascino misterioso man mano che la storia procede e spingendo il lettore ad avvicinarsi e ad allontanarsi costantemente dai vari piani narrativi, con la sensazione di una scrittura a più dimensioni che trasmette con efficacia l’ansia, l’insicurezza, il dubbio di colei che non può rinunciare, pur temendola, alla scoperta della verità su Gisella (e quindi su se stessa). Emerge qui la sapiente maestria con cui è dosata la progressiva acquisizione della verità: i primi incerti contatti, l’appuntamento, la sala d’attesa, tutto sembra caricarsi del peso simbolico di un percorso di prove da superare per giungere alla meta desiderata.
L’iniziale idillio si è trasformato e alla serenità e fiducia di quelle speranze giovanili subentra la realtà, quella stessa che possiamo riconoscere anche oggi nella sua aridità, sia essa all’insegna di una vita di famiglia e lavoro, forse troppo tranquilla per essere vera, sia essa sotto il segno di un effimero e finto universo di colori, luci, esibizioni. Siamo di fronte ad un’anima alla ricerca di una piena identità: sotto un’impalpabile tristezza che sembra placare la sofferenza di una separazione inspiegabile, ovvero di un’impossibile conciliazione di due modi opposti di essere, una quiete quotidiana priva di slanci cerca faticosamente la sua vitalità nelle piccole cose di ogni giorno ma cela dentro di sé i fantasmi dell’inconscio, qualcosa che prima o poi (questa volta attraverso un’immagine) si risveglia. Il mistero penetra inquietante nell’esistenza di una donna interamente consacrata agli affetti, al lavoro e al ricordo nostalgico di quella lontana amicizia.
A guidare la vicenda è il destino, frutto di una volontà o di un disegno superiore, il “caso” che riporta in vita il passato, facendo affiorare alla luce della coscienza il buio di ciò che non siamo e che, il più delle volte, spaventa, perché potrebbe in ogni momento accadere anche a noi.
Ed ecco che Lidia, descritta dalla Rubinacci con partecipe realismo, riveste i panni di un’eroina drammatica, combattuta fra normalità e il regno a lei estraneo dell’effimero, in cui ritroverà, attraverso la giovane Chantal, la strada da percorrere per far riemergere ciò che non è mai stato nella sua vita. Il dramma, esteriore ma anche intimo, si consuma, forte, con evidenza quasi teatrale, attraverso agnizioni e sofferte narrazioni affondate nei ricordi. Come nell’antica tragedia, l’errore è punito da un’imperscrutabile legge fatale, e colei che incarna la catarsi finale attraverso la sua pena è una figura esile nella sua fisicità e quasi metafisica nella sua immobilità statuaria, lontana ormai dal mondo che l’aveva resa famosa e infine distrutta.
Due diversi destini, due esempi di umanità, o forse un’anima divisa da se stessa che cerca la sua parte gemella: la Rubinacci lascia magistralmente sospeso l’inquietante interrogativo. La donna che rifuggiva dalla normalità quotidiana diviene la figura tragica, fuori dal mondo e dal tempo (viene in mente la volontaria “reclusa” di “Notre Dame de Paris” di Hugo), colei che invece era parte di un’esistenza regolare diventa l’ardita protagonista che scopre il coraggio e la determinazione per guardare dentro di sé e, al cospetto di ciò che le manca, sentirne la necessità e restarne travolta, tanto da ritornare indietro, ma senza poter più staccarsi dalla sua nuova consapevolezza. In ognuno alberga il germe della follia, e spesso la normalità della vita è l’inconsapevole fuga da questa follia e la sua repressione sotto una patina di conformismo. E forse quella follia è la parte più autentica del nostro essere. Una sorta di tensione percorre l’intera storia che si avvale di una scrittura fluida e immediata. La scrittrice sembra voler suggerire che ogni esistenza, in particolare quella più immune dai turbamenti, può essere cambiata dal ritorno di un vissuto che si credeva sepolto e che risorge, portando con sé l’oscuro timore di scoprirvi la fonte delle proprie paure, la causa dei propri fallimenti, il seme dell’irrazionale e della pazzia. Il pensiero ci riporta ad una massima cinese: “Il tuo passato ti insegue e prima o poi ti raggiungerà!”. Tocca a noi essere pronti.
di Alessandro Pierfederici
http://www.altritaliani.net/spip.php?page=recherche&recherche=alessandro+pierfederici
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/la_bambola_sulla_sedia.html
“La casa di Sveva”
di Francesca Panzacchi
Ciesse Edizioni - Padova
Arthur Schnitzler: al nome del grande scrittore austriaco, attento esploratore dei misteriosi meccanismi della coscienza e dell’inconscio, dei deliri delle menti turbate e di quelle in apparenza lucide ma incapaci di discernere sogno e realtà, è corso il mio pensiero dopo la lettura di pochissimi capitoli de La casa di Sveva, così che, retrospettivamente, mi è venuto spontaneo il parallelismo tra lo straordinario prologo di questo affascinante romanzo e l’enigmatico, allucinato ritrovo del racconto “Doppio Sogno”, che ha ispirato la versione cinematografica di Kubrick, “Eyes Wide Shut”.
In entrambi aleggiano la stessa tensione e lo stesso mistero, gravido di possibili conseguenze, che l’ultima frase del prologo lancia come un’esca all’attenzione del lettore.
Da questo momento, come ad un’apertura di sipario, ci troviamo già dentro al dramma e si tratta solo di comprendere quando, come e quanto si impadronirà di noi.
Riga dopo riga, parola dopo parola – si potrebbe dire – con una tensione crescente resa in modo magnifico dalla scrittura, l’incubo si materializza visivamente, tanto più allucinante quanto più si muove nell’ambito di un’ipotetica calma esteriore, nella quale il dialogo, serrato ed essenziale quanto quello di un’efficace, perfetta sceneggiatura, assume ad un tempo il tono della normalità e quello della follia (del resto, quanto sono veramente distinguibili questi due aspetti?), così che ad ogni momento ci si attende la svolta, il colpo di scena decisivo.
Il gioco psicologico trova la sua naturale evoluzione in quello erotico, componente essenziale della complessa dinamica fra i due protagonisti o, se vogliamo, fra i due aspetti conflittuali della protagonista. A poco a poco i diversi atteggiamenti di queste due figure convergono fino ad una sorta di scambio: il debole prende forza, il dominatore inizia a cedere (l’eterna ruota della vita e del tempo?) e, nel momento in cui il conflitto raggiunge il culmine della sua intensità emotiva, avviene un balzo inatteso quanto geniale verso il piano simbolico: compare una pietra, ricordo d’infanzia ma anche oggetto che lega saldamente alla terra e al passato; compare una fiaba, nella quale i personaggi fantastici assumono i ruoli di quelli reali e il cui protagonista è quel drago, simbolo del fuoco della passione, al quale la scrittrice pone in bocca la frase più intensa, drammatica e vivificante del libro, non a caso scelta quale motto dell’intera storia: “Ucciderò i tuoi desideri, uno alla volta, fin quando sarò io il tuo unico desiderio.”
E, dopo la terra e il fuoco, compaiono l’acqua, ossia il mare, e infine il vuoto, l’aria, entrambi simboli di libertà, a completare i quattro elementi fondamentali della vita.
Dal recupero, dalla conoscenza e dalla conquista di questi quattro elementi, ora con la memoria, ora con la contemplazione, ora con l’azione, la protagonista ritorna in possesso del proprio destino e della propria identità. La casa-prigione – metafora spettrale di un’anima che tiene prigioniero il suo corpo, attraverso la propria emanazione, un “alter ego” che è ad un tempo desiderato e respinto, amato e odiato, e che assume le sembianze dell’uomo misterioso – diventa il luogo della liberazione: l’anima, oppressa dalla parte ignota di sé, diventa consapevole e forte; l’oscura galleria imboccata nel prologo sbuca finalmente verso una nuova luce.
Il gesto finale di Sveva sancisce la presa definitiva di coscienza della propria identità: dopo un doloroso conflitto interiore, che non può ovviamente prescindere dall’aspetto sessuale, componente fondamentale della completa armonia dell’essere umano, della sua mente e della sua coscienza, quella parte di cui ella è stata schiava, ma della quale è poi divenuta padrona, viene definitivamente sconfitta e ridotta all’impotenza.
Sotto questo aspetto, leggerei questo romanzo come il flusso di coscienza di una donna che si guarda allo specchio e vede dietro di sé l’immagine incombente di tutto ciò che non è stata, per volontà o per necessità, e che viene a reclamare le proprie ragioni.
Ma, al contrario di quanto ci si attenderebbe, e con un autentico colpo di genio creativo, non è il nuovo, il non-essere a sostituirsi all’essere precedente, ma è quest’ultimo che, grazie a quel contatto (che narrativamente è sia sessuale che dialogico, sia violento che dolce), riprende possesso, o meglio scopre finalmente le proprie potenzialità, e, forse per la prima volta nella sua esistenza, le mette a frutto.
La prigioniera del proprio immobilismo e delle proprie convenzioni esce finalmente dal guscio: non ci si inganni sulla crudezza della conclusione, perché ogni parto è doloroso, ogni rinnovamento implica un traumatico troncamento con quanto non serve più, ma alla fine – e l’ultimo capitolo ne è la bellissima sintesi (primavera, sole, caldo, movimento, luce) – la vita riprende, continua e trionfa.
L’autrice dimostra in ogni pagina la magistrale capacità di gestire lo sviluppo progressivo del racconto, grazie ad una scrittura densa, essenziale ed esauriente, che potrebbe quasi appartenere ad un dramma teatrale espressionista o, ancor di più, si diceva, ad un lavoro cinematografico, grazie anche ad una componente descrittiva e visiva di immediata evidenza, nonché ad una narrazione nella quale il susseguirsi degli eventi è trascinante e coinvolgente, al punto che talora si stenta a credere che sia costruita quasi esclusivamente sul dialogo di due personaggi in un solo luogo. E questa avvincente unitarietà narrativa e drammatica richiama alla memoria anche le tradizionali unità aristoteliche: tolti prologo ed epilogo, se consideriamo che l’intera narrazione non ha alcuna soluzione di continuità cronologica, che l’azione sviluppata è unica e si svolge in un solo luogo, si ha un reale richiamo alla tragedia classica, compresa la catarsi finale, ossia il distacco fisico tra Sveva e Andrea, che potrebbe simbolicamente adombrare la contrapposizione e la frattura fra “Superego” ed “Es”, quest’ultimo ricacciato nell’oscurità da cui è emerso, nella mente della protagonista.
Straordinarie suggestioni culturali ci riserva dunque questo breve romanzo, che apre riflessioni inquietanti sulla realtà psichica dell’apparente normalità, e del quale vorrei però cogliere l’aspetto positivo della scoperta, o del ritrovamento, al termine di un sofferto travaglio interiore, di una propria, autentica verità.
Si tratta di una lettura che lascia col fiato sospeso fino all’ultima scena e che trascina nel suo vortice un lettore impossibilitato a staccarsene, grazie ad un fascino ammaliante che svela ad ogni istante un ineguagliabile talento di grande scrittrice.
di Alessandro Pierfederici
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/la_casa_di_sveva.html
“Andrea contro Sveva”
di Francesca Panzacchi
Ciesse Edizioni - Padova
Terminata la lettura del coinvolgente romanzo “Andrea contro Sveva”, sarà molto difficile osservare con indifferenza gli anonimi volti sconosciuti che si incontrano, senza ipotizzare che, dietro quelle maschere di apparente normalità, al riparo della rassicurante sembianza dell’uomo o della donna in fila presso uno sportello pubblico, in una sala d’attesa o nel proprio posto di lavoro, si possano celare le insondabili, misteriose aberrazioni della mente, oscure e impenetrabili anche per coloro che ne sono vittime, e comunque indissolubilmente congiunte alla loro natura.
Ciò che trasmette con la sua abilità narrativa la scrittrice è la sensazione che in ciascuno di coloro che conosciamo, o forse addirittura nel fondo più segreto della nostra stessa realtà interiore, possano annidarsi un’altra Sveva o un Andrea, o forse quella Anna che, pur nella sua apparente, maggiore conformità alla società “normale”, giunge ad un autolesionismo emotivo e fisico, che la porta consapevolmente e volontariamente incontro al proprio destino.
Dopo l’approfondita analisi dei meccanismi misteriosi della psiche che caratterizza “La Casa di Sveva”, in questo romanzo altrettanto affascinante e appassionante - che, pur autonomo dal precedente, ne costituisce il seguito e, per così dire, l’inevitabile conseguenza - siamo fronte agli esiti imprevedibili e tragici originati da tali meccanismi, nel momento in cui possono agire al di fuori del luogo chiuso e segreto in cui si sono risvegliati, così che dramma privato, vicende da cronaca nera, memoria dell’atavica guerra dei sessi, visione degli incontrollabili abissi dell’animo femminile finiscono per fondersi mirabilmente. L’oscuro mistero della mente esce dalla riservatezza dell’ambito privato, celato agli occhi del mondo, attraverso la liberazione che la protagonista ha conquistato dai suoi fantasmi interiori, e si proietta sulla realtà, fino a raggiungere tutti coloro che entrano nel suo raggio d’azione.
La scrittura segue perfettamente questo percorso, allargando la visuale dal primo piano, e a volte dal dettaglio, che caratterizzava il precedente romanzo, al campo lungo di questo, comprendente tutto il mondo attorno a Sveva ed Andrea, pur rimanendo in tutto fedele a sé stessa nelle sue qualità di essenzialità, chiarezza espressiva, capacità di delineare in pochi tratti ben definiti personaggi vivi e reali, tanto che abbiamo talora l’impressione che in qualche modo essi facciano parte della nostra esistenza: la narrazione entra ancora una volta fortemente e decisamente nella vita del lettore.
La mia lettura ruota attorno alla protagonista femminile, colei che, forzatamente o per libera scelta, determina tutti gli eventi. Si tratta di un’esistenza seducente e tragica, quella immaginata dalla scrittrice per Sveva, un’esistenza impossibilitata a fermarsi, per non smarrire ciò che le vicende passate hanno fatto emergere come la sua reale natura. Questa volta Andrea non è l’inconscio che piomba inatteso a turbare la sua tranquilla esistenza ma è la voce della coscienza, la rielaborazione dei fatti avvenuti in precedenza, e incombe come un fantasma sulla sua vita, proprio come la coscienza pesa sulla vita e sull’agire di ciascuno. Sveva tenta di fuggire da quella coscienza, che la riporta al passato e le ricorda la sua irresistibile ansia di libertà e di affermazione del proprio essere allora ridestatasi. Ma tale tentativo si rivela impossibile (a tal proposito è bellissima la citazione integrale della fiaba di Esopo all’inizio del libro), tanto che ella non può che rifiutare un’esistenza facile e apparentemente serena, che le circostanze sembrano offrirle, per tornare a riprendere possesso, in modo rischioso, doloroso, forse fatale, di ciò che aveva abbandonato in un’illusoria ricerca di autonomia.
E’ questo il momento, sintetizzato nel titolo del romanzo, in cui culmina la tensione narrativa di tutta la storia, il momento della lotta senza tempo fra le due parti opposte dell’essere umano, uno scontro verbale e fisico che affonda le sue radici nell’istinto primordiale di sopravvivenza, conquista, possesso.
E con una soluzione inaspettata e sorprendente - che rivela appieno il suo talento nel gestire la tensione narrativa, catturando l’attenzione del lettore fino al punto da renderlo presente sulla scena, come era avvenuto già nella prima storia di Sveva - la scrittrice, nel momento in cui tutto sembra aver preso una direzione già annunciata, muta improvvisamente la prospettiva: le due forze vitali in contrapposizione trovano, nel loro scontro e nel loro reciproco annullamento, una nuova forza. Corpo fisico e coscienza interiore sono di nuovo un essere solo: “La nostra unione ha generato qualcosa di più grande al quale non possiamo sottrarci” aveva detto Andrea ad Anna qualche tempo prima, parlandole del suo rapporto con Sveva, quasi una premonizione, o forse la consapevolezza di essere davvero una parte di lei. La donna Sveva ritorna padrona della propria parte interiore cosciente e le due forze congiunte diventano una macchina dall’impressionante forza distruttiva, la cui natura è riassunta nella frase di Andrea: “Siamo uguali io e te, sappiamo uccidere se necessario.” E a proposito di quel “io e te” verrebbe da chiedersi se non si tratti proprio dell’anima e del corpo, come a dire che, nella fusione dei suoi due elementi contrapposti e nel raggiungimento del suo perfetto equilibrio, l’essere umano diventa invincibile.
Quella lotta primitiva, barbarica quasi, nel suo fondere violenza, sesso e passione, che aveva visto l’uno di fronte all’altra Andrea e Sveva, ora li vede uniti. Ma, mentre Andrea sembra pago di tale esito, Sveva continua il suo inevitabile percorso come una belva in agguato pronta a balzare sulle sue vittime. Ella, abbiamo visto, non è in grado di fermarsi (mi viene in mente il fatale destino del Macbeth shakespeariano, il cui dramma è appunto quello di non potersi più arrestare, una volta dentro a quella spirale di delitti e di sangue che ha avviato); quando il possesso della coscienza è riacquisito, questa si piega alla volontà irresistibile dell’istinto, nel modo più radicale e definitivo, poiché di fronte alla natura non ci sono consuetudini, legami, leggi morali o umane che tengano. L’essere umano torna alla sua condizione primordiale, quasi a chiudere il cerchio di apparente aberrazione di una mente sovraesposta alle sollecitazioni e alle emozioni della vita, che trova nell’impenetrabilità dei suoi percorsi la propria ragion d’essere: di fronte a Sveva siamo portati a chiederci se la follia esista veramente, o se la sua non sia invece una forma diversa, una visione ancor più naturale ed autentica, della realtà.
Si insinua così nel lettore l’inquietudine della lucida alienazione, della normalità della mente smarrita in un vortice dal quale non può uscire, perché quel vortice è la sua verità: e quante volte noi stessi crediamo ad una nostra verità, con convinzione e senza alcun dubbio, verità che agli altri può apparire invece come follia? Il che è come domandarsi quanta Sveva ci sia in ognuno di noi.
Ed è estremamente significativo che la spirale di apparente follia, che caratterizza entrambi i protagonisti, si espanda inglobando le più fragili e deboli esistenze (quelle nelle quali coscienza e fisicità sono ancora divise) che incontra, in particolare le uniche figure realmente ricettive, quelle femminili. Infatti, mentre Fabio suscita la spontanea antipatia per il maschio che si crede superiore per motivi puramente economici e classisti, e Marco rivela la meschina realtà maschile di chi riduce il valore della relazione con la donna ad un fattore esclusivamente fisico, invece Anna è devastata dal proprio lavoro, anche se non lo dà a vedere, e dai rapporti coll’universo maschile, e Sara è una donna le cui problematiche sono ancor più nascoste e impercettibili, ma potenzialmente esplosive, come appare dall’angosciante accenno alla fine del quattordicesimo capitolo.
La notte dell’anima, che si alterna costantemente al giorno di un’esistenza regolare, quasi ineccepibile, è riflessa nella notte reale e misteriosa con cui la narrazione ha inizio e che in breve precipita in una spirale di vicende, il cui principio, apparentemente positivo, nel segno di un ritorno alla vita, è anche colmo della tensione e dei presagi che tale ritorno suscita. In un istante, ci troviamo proiettati, con una sapiente tecnica narrativa di forte impatto visivo (anche questo romanzo, come il precedente, presenta una scrittura dalla valenza quasi cinematografica o teatrale, essenziale quanto efficace: non una parola di più né una di meno di quanto necessario per far comprendere tutto e dire tutto ciò che serve), in un passato recente, all’origine dell’intera storia, e a poco a poco si comprende come alla vittoria del recupero fisico faccia riscontro la sconfitta della perdita emotiva, un’altra dicotomia tipica dell’essere umano, che l’autrice ha saputo magnificamente interpretare nella sua carica di fortissima agitazione interiore: la coscienza vuole tornare padrona del corpo cui appartiene, ora lontano, con tale determinazione da spingere invece proprio quello stesso corpo a tornare da lei.
Anche l’elemento notturno ritorna, ed è accompagnato da un altro simbolo ricorrente che ha una sua collocazione imprescindibile nella storia e nella vita dell’uomo, quel momento di unione misteriosa fra scienza e magia, fra psicologia ed esoterismo, che è il sogno.
Più volte la sconvolgente dimensione onirica si affaccia nel racconto, facendo emergere dal buio dell’interiorità la reale condizione dei protagonisti. I meccanismi imperscrutabili e inafferrabili del sogno aggiungono alla storia l’elemento psicanalitico, enigmatico quanto angosciante ma essenziale per definire ancor di più, con immagini simboliche o trasfigurazioni fantastiche della realtà, gli insondabili percorsi dell’inconscio: il vuoto, le ali strappate (nere, naturalmente), l’acqua della pioggia (purificazione) e quella del mare (vita e liberazione), sotto un cielo nuvoloso, grigio e cupo che schiaccia il sognatore nella sua introversione; e poi la metamorfosi, ancestrale rappresentazione di un percorso iniziatico di cambiamento (siamo alla vigilia della conclusione della vicenda fra Andrea e Anna) che porta una creatura bellissima, avvolta da musica e danza, attraverso una condizione di mostruosità (la realtà vera dell’anima, che si cela dietro l’apparenza serena e che la mente dell’ignaro sognatore ha intuito?), verso una nuova, diversa bellezza che la distrugge, sostituendosi a lei. E quindi il tramonto e la rielaborazione della coscienza che si sente colpevole e che cerca giustificazione attraverso la trasformazione dei fatti accaduti (e qui è magistrale la capacità della scrittrice di modificare le caratteristiche dell’ultimo sogno, che appartiene a Sveva, rispetto al coerente simbolismo dei sogni di Andrea).
La storia, iniziata nel buio silenzioso di una notte, identificazione simbolica con l’universo femminile, lunare, col mistero della nascita che viene dall’oscurità della gestazione, termina nel segno degli elementi della luce: il faro, in cui si svolge l’ultimo atto del rapporto fra Sveva ed Anna, ed il fuoco, che divampa, con significativa contrapposizione, di fronte all’acqua del mare, simbolo di distruzione e rinascita (non c’è parto senza dolore, trauma o morte - insegna la natura), immagine di una nuova vita, quale è quella che sembra attendere la protagonista.
Ma alla fine, con un altro colpo di scena inatteso, si rianima il dubbio atroce: la vicenda è veramente finita, oppure il mistero che si cela sotto gli enigmatici, ultimi pensieri e desideri di Sveva è pronto a far precipitare ancora queste vite, comprese le nostre di lettori, in un nuovo inizio, come se la storia stesse per ricominciare da capo, in un ciclo continuo e interminabile di vita, morte e rinascita?
di Alessandro Pierfederici
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/andrea_contro_sveva.html
“Da questa parte, qualcosa”
di Gennaro Maria Guaccio
Aletti Editore
La ricchezza di spunti che offre il romanzo “Da questa parte, qualcosa” di Gennaro Maria Guaccio permette un approccio molteplice alla lettura. Dal monologo interiore - che passa dagli interrogativi scientifici a riflessioni filosofiche fino a più prosaiche riflessioni dettate dall’osservazione quotidiana del mondo - al dialogo vero e proprio, tutto, pensieri, parole e azioni, è espresso attraverso la visione interiore del protagonista. Ma il dato puramente narrativo racchiude l’analisi e la rivelazione del baratro che si nasconde dietro la forma esteriore della vita quotidiana, quel baratro che spesso si risolve in un vuoto pauroso, di fronte al quale molte esistenze si smarriscono ed altre, come quella di Eros, trovano un nuovo significato all’essere presenti nel mondo.
La storia si apre con l’annuncio di un divorzio finalmente perfezionato, un annuncio di libertà, forse, ma anche di solitudine, ed è sintomatico che fin dall’inizio si pongano idealmente in contrasto due figure femminili, una presente, discreta, paziente, quasi una raffigurazione ideale, l’altra intravista attraverso la memoria, sotto l’aspetto negativo di un disfacimento fisico ed emotivo, due figure che rappresentano il punto di partenza e quello di arrivo, il peso e il superamento dell’isolamento del protagonista.
Poiché la narrazione avviene in un contesto temporale in cui tutto è ormai passato, questa esperienza di decantazione della vita trova riscontro nella limpidezza di una scrittura che, nonostante l’apparente complessità dei vari ed intrecciati livelli narrativi su cui si sviluppa la storia, si purifica in una chiarezza quasi classica, in un flusso continuo in cui tutto è importante e significa qualcosa, assumendo talora un tono di raffinata e pungente ironia.
Ben tratteggiati i personaggi: da “Ics” - simbolo per antonomasia dell’incognita, che identifica il protagonista con la sua incompiutezza: nessuno più lo chiamerà così, né al paese né a scuola, quando avrà trovato la via di uscire da ciò che ne alterava e celava la vera identità - al preside Von Ribbentrop, soprannome che evoca scenari ben altrimenti mostruosi ma che evidenzia quanto la realtà distorta, dispotica, corrotta di un contesto lavorativo che dovrebbe invece formare l’umanità futura, gravi pesantemente sui suoi protagonisti fino all’arcigna, bisbetica custode Maria Stella, nome che richiama inevitabilmente una realtà politica recente.
La solitudine, unita alla formazione scientifica di Eros, dà origine a un’attività psichica tormentata, fino al limite della contorsione, una ricerca incontrollata ed ossessiva della spiegazione, che va di pari passo con la desolante coscienza della sua inadeguatezza a spiegare i meccanismi del mondo e le ragioni della vita e, come conseguenza ulteriore, l’amara, inevitabile ammissione che tutto il sapere cui egli si è dedicato si rivela insufficiente e vano.
Ma quell’atto di coraggio (o di disperazione - chi potrebbe veramente distinguere due realtà dai confini così labili?), prendere in mano la propria vita, mutare prospettiva, aggiunge alla descrizione realistica un elemento nuovo, romanzesco, dalla valenza anche filosofica e simbolica. L’isolamento diventa ragione stessa di vita, momento di passaggio verso una rinnovata esistenza che, dopo tanto squallore, si illumina di una speranza di rinascita. E alla fine, la vita dell’intellettuale inquieto e nevrotico acquisterà il significato di una vera esistenza con l’annuncio della paternità, la luce in fondo alla galleria, quel “qualcosa” che conta davvero.
Sotto il dramma intimo, vissuto talora con apparente ironia e disincanto, si cela il dramma, ignoto, sottovalutato o ignorato, del mondo attuale, che ha affidato la sua sopravvivenza ai meccanismi tecnologici e scientifici, che è quanto dire il tentativo ossessivo di spiegare tutto attraverso formule, calcoli ed esperimenti, conquista e condanna di una società che si avvicina pericolosamente ad uno stadio irrazionale, incosciente, asettico, con il conseguente corollario dell’assoluta mancanza di rispetto per chiunque (la scena dell’aggressione a Nora è rivelatrice al riguardo).
Il contesto sociale e quello professionale impongono ormai all’uomo attuale freddezza, calcolo, soppressione o repressione dell’emozione, intesa come debolezza o, peggio, inaffidabilità. I rapporti si fanno difficili, problematici, anche quando potrebbero essere semplici: la relazione abortita fra Eros e Nora è lo specchio dell’inadeguatezza dell’individuo alla vita e del comodo ripiego definito “far di necessità virtù”.
Sono due tipi umani straordinariamente reali, Eros e Nora: lui indeciso, incapace persino di desiderare (forse perché il desiderio non sembra trovare un riscontro in una formula scientifica o in una particolare combinazione genetica?), lei figlia di buona famiglia, provata dal dolore della vita, alla ricerca di una serenità, una stabilità qualunque, una presenza maschile che riproduca, in lei adulta e madre, il carisma e il prestigio del padre. Sono l’esempio di una realtà sociale smarrita, di un’umanità sempre più alla vana ricerca di ciò che non è più, una crisi cui né la scienza né l’umanesimo scolastico riescono a supplire, tanto che appare sempre più chiaro come la conoscenza, che avrebbe dovuto essere strumento di libertà per l’uomo, lo chiude in un prigione o lo obbliga a un percorso predefinito: più aumenta la conoscenza, più si stringono le gabbie attorno alla coscienza, bloccata nella necessità di definire, ripartire, classificare tutto, meno spazio rimane per ciò che vi è di veramente unico nell’animo umano, la capacità di pensare, inventare, creare. Lo sguardo gettato sul mondo della cultura si incontra con un’evidenza profondamente triste: né la scuola, con i suoi problemi atavici, né l’impegno di singoli volenterosi, né convegni, conferenze, studi, né alcuna forma di acquisizione culturale che non sia finalizzata alla valorizzazione dell’essere umano possono trovare un sia pur minimo scopo; nulla serve, se non rende l’individuo più consapevole di sé, cosciente della sua presenza e della sua necessità di essere parte della storia, interagendo con il microcosmo della sua realtà quotidiana e non subendolo, che poi è quanto dire, per un effetto a catena, essere parte attiva nel rapporto con il mondo.
La scuola diviene metafora del mondo, un microcosmo che riproduce il macrocosmo umano attraverso alcune figure esemplari, personaggi riscontrabili nella vita di ciascuno, tratteggiati con precisione ed efficacia, tanto da imprimersi nella memoria soprattutto per quanto riguarda le loro spigolature: non solo Eros e Nora ma anche il dirigente, la custode, gli altri docenti, alcuni ragazzi, che, delineati con pochi tocchi descrittivi, riassumono la complessità e l’eterogeneità dell’universo giovanile.
Lentamente questo mondo trova una sua parziale spiegazione psicanalitica: il rifiuto del figlio da parte della madre anziana e demente, chiarito poi da un sogno, il rapporto di identificazione irrisolta con lei e la perdita quasi dell’identità, il senso di colpa, l’ossessione del cromosoma killer (la madre glielo avrà trasmesso o no? Anch’egli è destinato a smarrire la sanità mentale? Quanto sarebbe stato meglio non conoscere nulla, forse...) e così via. Non sorprende che il risultato di tutto questo sia il fallimento sentimentale prima, un’irresolutezza fatale poi e alla fine la fuga decisiva dall’insostenibilità del vuoto dell’esistenza attuale. Un tormento interiore profondamente umano; complesse articolazioni, mentali o epistolari (le lettere di Eros a Nora); difficoltà relazionali e prigionia della conoscenza che indirizza il pensiero in direzione obbligata: sono tutti elementi delineati con precisione dalla scrittura, suggestiva soprattutto nell’ossessionante, allucinante descrizione della follia della madre e del ricorrente sogno che è conseguenza del rapporto malato fra questa ed Eros, rapporto il cui vizio determina poi la contorsione psichica del protagonista, vittima di una comune ma alterata relazione edipica.
Ma quella di Eros è una vera fuga? Attraverso quello stretto passaggio di un periodo “sabbatico” - un catartico ritorno alla natura, alla vita semplice e serena di un paesino di mare in solitudine, in cui invano tentano di penetrare le ultime ombre della vita precedente (la scena a metà fra ironia e angoscia che avviene tra Eros, col suo patetico tentativo di riconquistare Nora, impossibilitata a sua volta a chiarire a sé stessa ciò che vuole davvero, e il nuovo compagno di lei, indifferente a quanto avviene attorno a sé) -, in fondo al tunnel, si assiste a un ritorno ai valori riconosciuti come veri, perché all’esistenza apportano un significato, sintetizzati in un rapporto d’amore forse non appassionato ma autentico e non artificioso. È come un trapasso, un cammino iniziatico, l’abbandono del vecchio percorso per uno nuovo e diverso, in cui tutto ciò che è stato rimane, fondamentalmente, dall’altra parte.
In questo passaggio, narrato nella prospettiva di qualcosa che è già avvenuto, un continuo intreccio di memorie, sensazioni, consapevolezze, risalta il confronto tra due realtà apparentemente lontane come quella della semplice, saggia, deliziosa Olga (anch’essa col suo vissuto di sacrifici e fatiche) e quella del professore che avrebbe voluto spiegare tutto, con la filosofia e la scienza (porcospini, girasoli, mari, uccelli, cromosomi e così via...) ma che alla fine, smarrito in quel buio, torna “da questa parte”, verso l’unica luce rimasta, dove c’è qualcuno che lo aspetta, dove c’è la verità umana, non quella dei numeri e delle formule, dove, più semplicemente ma anche definitivamente, c’è “qualcosa”.
di Alessandro Pierfederici
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/da_questa_parte.html
“Chi ha raccolto le conchiglie”
di Mariacarla Rubinacci
Biblioteca dei Leoni
Si può lanciare un messaggio profondo, ricco di significati e, sotto certi aspetti, perfino crudo, per la forza con cui impone una riflessione, attraverso una storia improntata alla quotidianità, delicatamente avvolta dal velo trasparente del ricordo e dalle emozioni sincere di un diario segreto?
Mariacarla Rubinacci risponde con “Chi ha raccolto le conchiglie” (LCE Edizioni), romanzo breve nel quale continua la sua profonda e partecipe esplorazione dell’universo femminile del nostro tempo.
Dalla sua fantasia sorge una toccante storia di donne alla scoperta di sé attraverso l’amore, oltre ogni conformismo, un percorso tormentato, che passa attraverso molteplici esperienze, sia della protagonista Sandra che - lo sapremo alla fine - della compagna a lei destinata, Mara, un cammino sofferto e coraggioso, fra gli ostacoli e le tortuosità delle convenzioni sociali della vita moderna, molto meno libera di quanto vorrebbe farci credere, ma soprattutto fra le pieghe dei sentimenti, della passione, della fantasia e della razionalità.
La vicenda di questo cammino - descritto con amorevole partecipazione, e con la consueta, indiscutibile capacità di delineare figure femminili che restano nella memoria del lettore - pur immersa nella quotidianità di un’epoca che pare cancellare ogni forma di emozione, dà origine ad un’opera di rara poesia, la cui scrittura dai toni soffusi, lieve e immediata, permette di intuire senza essere aggrediti, ma pone una questione di fronte alla quale non ci si può concedere il lusso di tirarci indietro e restare indifferenti, proprio perché siamo stati condotti per mano, quasi senza accorgercene, a un inevitabile confronto con la verità.
Il problema non è solo quello dell’omosessualità e di tutte le conseguenze di ordine emotivo, sentimentale, sociale e morale che essa comporta, in una realtà che vorrebbe dirsi libera e tollerante, e mente ipocritamente a sé stessa, nella vita pubblica e nelle relazioni private: questo è il punto di partenza che, sotto le sembianze di una storia di fantasia, che cela chissà quante altre simili storie reali, nasconde il conflitto fra la propria piena identità (l’omosessualità, come ogni altra condizione umana, non coinvolge solo la fisicità ma anche la spiritualità, ma il problema potrebbe riguardare anche motivi di razza, religione, idee politiche, classe sociale) e ciò che il mondo dei rapporti sociali e di un finto perbenismo vorrebbe che fossimo. E questo conflitto diventa dramma, diventa un nodo da sciogliere, tanto che la conoscenza e l’accettazione della propria natura da parte di Sandra comporta la necessità di un lungo racconto, il substrato narrativo di tutta la storia, ad un tempo poetico e toccante: la confessione alla figlia Martina, alla vigilia delle nozze di questa, quando l’ultimo tratto di cordone ombelicale sta per essere definitivamente tagliato, una confessione che si configura come atto di verità, dignità e coraggio.
La forza, apparentemente invisibile ma portante, della narrazione è nel capovolgimento di prospettiva: una confessione della figlia alla madre, di qualunque natura possa essere, rappresenta un luogo comune, non privo di fascino e possibilità, ma ampiamente sfruttato; la confessione della madre alla figlia, invece, è atto d’amore, di stima, di rispetto e, nel contempo, affermazione definitiva di libertà: ora che Martina seguirà per sempre la sua via, Sandra non può più portare con sé un vissuto sempre taciuto e deve liberarsi del segreto per acquistare la propria libertà, prima di tutto di fronte a sé stessa. La figura di Martina è quasi lasciata all’immaginazione del lettore, proprio perché la carica emozionale si possa concentrare sulla protagonista. La rivelazione è difficile perché costretta ad emergere da cumuli di convenzioni, pregiudizi, falsa percezione di una rispettabilità fatta di pura apparenza; ma nulla di tutto ciò è in primo piano: il valore profondo del racconto è nella presenza silenziosa di questo “nemico”, sopra la quale scorre, come un fiume ora limpido, ora increspato, ora calmo, ora torbido, la storia di Sandra. L’interlocutrice è fisicamente la figlia, ma la confessione vera è a sé stessa, un far emergere alla propria coscienza l’accettazione di sé: come un diario intimo, davanti ad uno specchio, inizia allora una narrazione intrisa di sentimenti, confidenziale, romantica.
Il sipario va ad aprirsi sulla natura che investe della sua forza la volontà e porta al coraggio della rivelazione, alla conquista della serenità, all’affermazione della propria identità, riconosciuta da Sandra stessa, l’unica che avrebbe potuto, perpetuando il segreto e la finzione, negarla ancora: nessuno al mondo potrà mai accettarci se noi per primi non accettiamo, talora con fatica, con tormento, con dubbi, la nostra realtà. Ma la grandezza della protagonista è l’implicito e doveroso rifiuto di giustificare la propria natura; Sandra racconta, soffre, gioisce, riflette, analizza talora spietatamente la propria vita e i propri comportamenti ma non assume mai un atteggiamento di discolpa, che l’avrebbe indirettamente accusata di una colpa inesistente.
Il coraggioso esempio della protagonista diventa così un modello per chiunque, pur tra lotte e difficoltà, tenti di affermare la propria individualità e il proprio diritto di essere umano di amare e di essere amato.
Il tema dell’affermazione della libertà delle proprie scelte e del proprio essere diviene così anche il tema dell’affermazione del proprio diritto ad una vita affettiva vera e gratificante; il percorso di Sandra non è mai prevaricante, anzi spesso la sua interiorità soffre profondamente di questa ricerca. La verità della natura talvolta è dolorosa, anche se necessariamente giusta, tanto che alla fine di due tortuosi, sofferti percorsi, le tessere del mosaico si ricompongono nell’amore.
La costante ricerca di Sandra non di conquista né di compagnia, ma di autentica condivisione, di completamento di sé attraverso la donna amata - una corsa interiore ed esteriore, che si nutre di brevi storie destinate a bruciarsi nell’ardore della loro fiamma, e che torna poi al punto di partenza, simbolicamente rappresentato dalle conchiglie sparse un giorno lontano e alla fine raccolte - si libera infine del peso del proibito per approdare finalmente ad una ricomposizione di tutte le tessere della vita.
Ma le conchiglie rimangono anche immutate nel tempo, a significare un saldo legame della vita con sé stessa, una ferma coerenza, al di là delle apparenze e convenzioni, come se la bambina di tanti anni prima avesse già incontrato il suo destino in quel dolcissimo, enigmatico e sensuale incontro con l’amichetta, e quelle conchiglie rappresentassero il segno distintivo di un percorso già segnato, votato a raggiungere il traguardo tanto agognato della serenità interiore, il lieto fine della tranquillità, il trionfo dell’amore inteso come la più alta manifestazione della verità umana.
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/chi_ha_raccolto_le_conchiglie.html
“Ganymede e la notte dei cristalli”
di Franco Massari
Biblioteca dei Leoni
Una visione riflessiva e amara di una vicenda reale in cui, come sempre, miseri e potenti, travolti dall’irrequietezza per la loro condizione, diventano pedine inermi nelle mani di un imperscrutabile destino che fa la storia.
Probabilmente non esiste nessuno che non si sia trovato qualche volta di fronte ad un bivio, costretto a scegliere tra l’individualità, anche a costo dell’emarginazione, o l’annullamento del sé in una massa globale ed uniforme, che ignora il singolo e detta le regole del gioco, si chiami essa società, necessità del divenire storico, movimento di pensiero, moda, esigenza di sopravvivenza e quant’altro.
Questo conflitto affligge anche l’esistenza del giovane protagonista Herschel già all’inizio del romanzo, in un prologo carico di tensione, nel quale l’immagine del bivio interiore trova esplicita raffigurazione nell’incertezza tra due strade reali, che evidentemente porteranno a destinazioni ed a conseguenze diametralmente opposte: e pare che, qualunque sia la scelta, essa si rivelerà sbagliata. Herschel non sembra ancora aver maturato la forza interiore per affermare la propria personalità e quindi la prima preferenza, pur sofferta ed incerta, cade sulla via che gli garantirebbe l’anonimato del contesto collettivo (i kibbutz creati dal movimento dell’Haganah). Tuttavia ben presto si pente: le ragioni dell’individualità paiono, se non affermarsi, rivelare almeno la loro presenza, precipitando a poco a poco l’incerto protagonista in un gioco più grande di lui, la cui incapacità di farne parte lo ridurrà di nuovo ad un anonimo numero di un gruppo, più ristretto ma similmente oppressivo sul singolo. Il suo errore è credere che alla fine di questo appiattimento ci possano essere i margini per affermare la propria individualità, percorrendo la via della legittima aspirazione ad una dignità umana, negatagli dalla sua condizione di clandestino irregolare, e ad una collocazione nella realtà del suo tempo e in quella società. E la soddisfazione di tale aspirazione, il permesso di soggiorno e l’apertura di un negozio tutto suo a Parigi, è potenzialmente possibile, ma a prezzo di altissimi, forse insostenibili rischi.
La forza drammatica di questo conflitto interiore, peggiorato dal fatto che ogni decisione assunta può rivelarsi fatale per il futuro, trova espressione nell’efficacissima, martellante sintassi, secca, ricca di pause che rendono oltremodo angosciante il quadro che apre la scena: un giovane uomo in gabbia, chiuso fra quattro sporchi muri per paura, ma soprattutto chiuso dalle mura della sua paura, certamente inevitabile in un ebreo polacco clandestino a Parigi alle soglie del secondo conflitto mondiale. È la paura di assumere una qualunque posizione, della propria condizione di emarginato alla ricerca di una vita migliore da un lato e di dissimulatore della propria natura sessuale dall’altro: il pericolo sovrasta l’uno e l’altro Herschel, sotto la forma della polizia francese in caccia di clandestini da una parte, e, dall’altra, della comunità ebraica che fonda la sua forza su un’ortodossia religiosa e morale, nella quale non troverebbe affatto posto un omosessuale dedito alla prostituzione.
Ma in questo momento la storia non è ancora giunta all’orizzonte: il dettaglio si aprirà a poco a poco verso un campo medio (finalmente Herschel, dopo giorni di clausura, troverà il coraggio di uscire) che mostrerà uno spaccato inquietante, torbido, opprimente della realtà del tempo, con un lieve, geniale tocco di fatalismo - elemento che percorrerà tutta la storia - se non di vera e propria magia, nell’indimenticabile figura della zingara. E poi, gradualmente, si aprirà la panoramica sul cupo contesto storico, caratterizzato da una febbrile ma immobile tensione, della quale sono specchio efficacissimo i turbamenti psichici, i rivolgimenti emotivi, il tormento interiore che confonde i pensieri del protagonista, attento ad ogni mossa, ogni parola, ogni minimo particolare sospetto attorno a lui, sconvolto dall’idea di essere riconosciuto come ebreo dai francesi e come omosessuale dagli ebrei. Questa spirale perversa che si attorciglia attorno alla sua vicenda umana sembra l’immagine delle spire demoniache che avvincono tutta la realtà di allora, pronta a precipitare in un baratro senza fondo.
È un paesaggio spaventoso quello che lentamente si muove attorno a lui, un meccanismo che, con una sorta di effetto domino, ad onde concentriche, si allarga a dismisura: le amicizie, l’amore attivo e passivo (Herschel è amato da una donna, consapevole forse della verità ma disposta ad accettarla pur di condividere con lui un ideale nazionale e politico, più che un benessere interiore ed emotivo), le aspirazioni, i desideri, i tormenti - tutto si tinge di un colore offuscato, grondante di angoscia e di morte: Simon è tubercolotico e tutto ciò che riguarda la sua malattia è descritto, con gli occhi di Herschel, come qualcosa di disgustoso; il prete, inconsapevole (o forse no) causa del tracollo degli eventi, sotto il manto della rispettabilità clericale, cela un duplice abisso morale, privato e politico; i colleghi di Herschel, in particolare Étienne, paiono figure che aleggiano leggere in una sorta di danza macabra, e così la spettrale Parigi, che sembra attendere, immersa in un’autunnale, antica atmosfera quasi cinematografica, in bianco e nero, la catastrofe ormai prossima.
E potenzialmente cinematografica è tutta la storia, per la sua componente di intrigo internazionale, per l’inquietudine che la percorre interamente, per la vivacità del rapido ma pregnante scambio dei dialoghi, attraverso i quali si delineano caratteri, immagini, situazioni che rendono i principali protagonisti, siano essi frutto della fantasia dell’autore o storicamente reali, indimenticabili figure a tutto tondo.
Gli eventi precipitano perché la storia, incarnata del ministro nazista Goebbels, muove i suoi passi verso l’appuntamento fatale con l’inconsapevole individuo che crede di percorrere la propria strada e percorre invece quella segnata dal destino. Ma anche il potente è schiavo della propria condizione, poiché ha la necessità di agire per uscire da una situazione di staticità che lo rende inquieto e soprattutto timoroso di perdere una posizione di preminenza e privilegio. Anche nel ministro, il flusso dei pensieri, pur sotto la patina di una forma impeccabile, rivela un intenso rivolgimento interiore, un’angoscia che lo rende vulnerabile e, come tale, disponendo di potere, pericolosissimo: si veda la studiata ma patetica manovra con la quale in un paio di occasioni tende a celare la propria infermità fisica; si veda l’ossessione con la quale paragona la propria situazione e quella del rivale Himmler, a testimonianza che anche quello, che appariva esternamente un meccanismo formidabile per unità e potenza come il governo del Terzo Reich, in realtà era minato dal suo interno, poiché anche i suoi più leali e convinti servitori sapevano di camminare sempre sul filo del rasoio della volubilità del dittatore. Emanazione della lucida contorsione psichica di Goebbels sono i suoi collaboratori, da Huber, la cui personalità si caratterizza proprio per mancanza di personalità, classico esempio di collaboratore prono ai voleri del capo di fronte a lui, efficiente per convinzione ma anche per calcolo ma, appena lontano dal suo diretto superiore, probabilmente uguale a coloro che - collaboratori di Himmler - concerteranno l’azione col suo rivale per dare lustro a questi, ed usufruire anch’essi degli eventuali vantaggi, ai danni del loro ministro.
Come non sta bene Herschel, così non stanno bene questi uomini di potere, incatenati ad un ingranaggio perverso che li priva della loro individualità, e così non sta bene Goebbels; ma se l’azione del giovane ebreo, funzionale al disegno politico e storico, porterà conseguenze nocive solo a lui stesso, e non tanto giuridicamente quanto umanamente, l’azione di quest’ultimo, potente scelto dal destino per muovere i meccanismi della storia, sarà brutale e devastante, con la beffarda aggravante di essere ornata dalla famosa espressione quasi poetica con cui è passata alla storia, tragico preambolo al tremendo conflitto che inizierà meno di un anno dopo.
In questo dualismo trova spiegazione anche l’ingegnosa articolazione architettonica del romanzo, grazie alla quale le due storie parallele, destinate inevitabilmente ad incontrarsi ed a determinare i tragici eventi ricordati dal titolo, si sviluppano in un’alternanza continua tra i capitoli dedicati all’uno e quelli dedicato all’altro protagonista, la vittima e il carnefice, lontani e sconosciuti l’uno all’altro: una sorta di tragico rimbalzo, in un continuo mutare dello scenario per Herschel e in un ritorno costante, ossessivo, inquietante all’ufficio di Goebbels, unico luogo visibile nel contesto della parte tedesca, la stanza dei bottoni, dove domina la descrizione degli oggetti d’arredamento che riflettono il mutevole stato d’animo del ministro, vera cabina di regia dalla quale si dirige tutta la vicenda. Tutte le vicende accessorie riguardanti la trama ordita da Goebbels, infatti, dalle più intricate alle più plateali, dalle più clamorose alle più segrete, vengono conosciute solo perché riportate da qualcuno in quella stessa stanza. La felicissima disposizione costruttiva della narrazione trasmette quindi l’impressione quasi fisica che il giovane protagonista, dovunque vada e qualunque cosa faccia, sia incatenato all’ufficio del ministro, che incombe su di lui come una cupa, angosciosa ombra. In questa disposizione a quadri alternati si intuisce la teatralità della scenografia nella quale si svolge il dramma e, in effetti, le figure dei due antagonisti assumono, nel loro inesistente contatto reale ma nella loro fortissima relazione, una fortissima componente tragica nonché una valenza filosofica sull’esistenza umana e sulla sua vanità di fronte al vero potere, quello del destino, che invita ad una profonda quanto dolorosa meditazione sulle ragioni di tanto affanno, tanto odio, tanta miseria.
Infatti, in questo inestricabile ma limpido intersecarsi delle due storie, emerge con un’evidenza a tratti brutale come le vite dei singoli siano avviluppate dal corso degli eventi epocali, e risultino perciò prive di una vera libertà: la struttura formale del romanzo intrappola irrimediabilmente Herschel, come la proiezione della gabbia interiore che egli stesso si è costruito con la sua indecisione, ma anche Goebbels e i suoi, prigionieri di un folle meccanismo burocratico, politico, cortigiano che essi stessi hanno creato, chiusi sempre, come si diceva, nella medesima stanza.
È come se su tutti incombesse la lunga ombra del “Fatum” di latina memoria, quel corso degli eventi preordinato da una volontà imperscrutabile che travolge tutto e di fronte al quale anche i cosiddetti potenti della terra diventano semplici pedine che si possono spostare, sostituire, abbattere con un soffio: l’inquietudine del potentissimo Goebbels non è poi alla fine tanto distante dall’irresolutezza di Herschel, e gli scopi di entrambi collimano nella conquista di una propria realtà migliore, il primo per timore di perdere la posizione e i privilegi acquisiti, il secondo per uscire da una condizione misera e pericolosa.
Il “Fatum” decide gli eventi della storia e quindi ogni scrittore che affronta il romanzo storico è chiamato ad un confronto non solo con le cause e gli effetti degli eventi ma con quell’elemento irrazionale ed insondabile che li indirizza e che si potrebbe definire anche coincidenza o casualità. Proprio in quel momento il ministro Goebbels ha bisogno di un’azione dimostrativa per ingraziarsi ulteriormente Hitler; e in quegli stessi giorni, Herschel, ormai esasperato, decide di prendere una strada apparentemente sicura e che si rivelerà invece irta di pericoli e destinata a travolgerne la vita più intima e privata. Attorno a questi due protagonisti, si muove una schiera di personaggi che contribuiscono ad arricchire lo scacchiere fatale di pedine più o meno determinanti; soprattutto, coloro che appartengono all’universo del giovane protagonista spiccano, in rapporto a lui, per la loro maggior forza, tenacia, capacità di iniziativa e di lotta, talora spregiudicatezza, lasciandolo irrimediabilmente solo, mentre quelli che soggiacciono agli ordini del ministro offrono un’immagine di efficienza e servilismo (specialmente il già citato Huber, nella costante attenzione con cui sorveglia il capo per intuirne i pensieri e dare le risposte che questi si aspetta) che racchiude in sé l’ascesa e il declino, la forza e la debolezza del Terzo Reich, come di qualunque tirannide.
Elementi di unione fra due mondi così diversi sono gli agenti segreti nazisti a Parigi, cinici e spregiudicati nella loro diversità: gentile, cordiale, accomodante quasi, il primo; spietato, brutale, intransigente il secondo; sono davvero i due volti con cui il destino entra nelle vite, le collega, le relaziona e crea i grandi eventi della storia, ora sotto forma di rivoluzioni, battaglie, movimenti di pensiero innovatori, ora nascoste sotto i meandri di un intrigo politico internazionale come in questo caso in cui, tra l’altro, la vera vittima sacrificata (il funzionario Ernst vom Rath che il caso, destino o altro vuole che sia stato anche l’amante di Herschel) è del tutto ignara di essere stata prescelta come pretesto per consentire ai tiranni di scatenare la loro rappresaglia preparatoria ai funesti eventi successivi.
Oggi come allora, l’inquietante ombra dei meccanismi sociali e politici, della burocrazia o del conformismo, dei giochi di potere come delle trame segrete, si estende sull’individuo, potente o debole che sia. La realtà storica, così ben evocata, sembra rimasta immutata nel tempo fino ad oggi, momento in cui ancora, come sempre, pare intraprendere una guerra contro l’individuo. Il destino prevarica sulle esistenze, servendosi di altre esistenze non meno schiave, in un gioco al massacro la cui posta è la storia dell’intera umanità: tutto cerca di negare all’uomo la sua individualità, a quell’uomo che non può vivere senza gli altri ma dai quali la vita gli viene limitata quando non soppressa.
Rimane l’amarezza di dover accettare l’inevitabilità dello smarrimento e della solitudine del singolo (che potrebbe essere ciascuno di noi) di fronte all’inarrestabile procedere della storia, mostruoso volere di un’entità (caso, destino, divinità?) al di sopra di tutto e tutti, che riduce ogni esistenza al ruolo di puro ingranaggio di un sistema da sempre e interamente contro di lei, unico vincitore e sopravvissuto in un mondo di soli vinti.
Treviso, 25 febbraio 2014
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/ganymede_e_la_notte_dei_cristall.html
“Echi di riti e miti”
Non avevo ancora imparato a leggere quando, seduto sulle ginocchia della nonna e con il nonno seduto a fianco a me, sfogliavo un piccolo ma spesso libretto che, se non ricordo male, narrava, con l’ausilio di una notevole ricchezza di immagini, la storia della terra e dell’uomo.
La mia memoria torna su un’immagine di un uomo antico, vestito di una pelliccia, che ara un campo guidando i buoi. In quelle pagine si narrava come l’uomo nell’antichità misurasse il tempo della giornata e l’avvicendarsi delle stagioni, come ogni attività legata alla terra e alla natura fosse scandita dal moto del sole, dalla lunghezza e brevità dei giorni, dal clima, dalle condizioni del tempo. Non ricordo altro, ma sono sicuro che tutte quelle brevi nozioni fossero poi illustrate da storie, leggende, superstizioni, ritualità che avevano una funzione culturale - tramandare la memoria e la tradizione - ma anche religiosa, ossia propiziarsi un avvenire prospero grazie ad abbondanti raccolti, ottima salute, soddisfazioni e gioie personali, con opportune formule e cerimonie la cui efficacia fu evidentemente provata già da tempi remotissimi.
Leggo adesso, oltre quarant’anni dopo, Echi di riti e miti e subito la mia memoria corre a quel mondo infantile, lontano dalla modernità anche se non lontano nel tempo, nel quale, per bocca di nonni, genitori e anziani conoscenti, nozioni, racconti, pensieri sono scesi nel profondo del cuore, più che nella mente, e si sono rifugiati in un angolo remoto dal quale la lieve, dolcissima penna di Daniela Quieti li ha fatti riemergere. È un vero tuffo nel passato di ognuno di noi, quel passato che ancora esiste, travolto da miriadi di sollecitazioni, sovrapposizioni, ostacoli che la vita moderna ha innalzato nei confronti della tradizione e che, sempre vivo, risorge però come una luce, come un soffice cuscino che riporta, con una sensazione quasi fisica, all’infanzia, alla protezione, al nido. Quel nido in cui giungevano soffuse le immagini dei vari momenti dell’anno, scanditi dalla ritualità religiosa e dall’avvicendarsi delle stagioni, dalle leggende e dagli aneddoti, da fatti realmente accaduti e trasformati dalla memoria orale fino ad acquisire un’aura quasi mitica, per essere poi ritrovati da adulti, privi ormai del fascino della fiaba ma avvolti da un velo soave di nostalgia e rimpianto. Tradizioni agricole rievocate dai nonni (da piccolo ho potuto ancora assistere, nell’assolato luglio dell’Isola d’Elba, alla ritualità della mietitura e trebbiatura, fatta con mezzi moderni per l’epoca, ma alla quale partecipavano indistintamente tutti i contadini dei dintorni, di chiunque fosse il terreno, in uno spirito di condivisione di cui si è ormai persa traccia; e, nelle trevigiane terre dei vini, ho potuto ancora assistere, da piccolissimo, alla pigiatura dell’uva con i piedi); insegnamenti religiosi ad un tempo ingenui e fantastici, tanto vicini alla fiaba; quel sapere comune minimo che passava da padre a figlio a nipote: tutto questo torna con le note delicate e tenere della melodia di Daniela Quieti, una scrittura semplice, immediata, quasi colloquiale, dalla quale traspira un rispetto infinito per chi legge e vi ritrova in parte sé stesso, sentendosi accarezzare lievemente.
E poi c’è l’amore per la propria terra, quella fonte d’ispirazione e ricordi, quel forziere che custodisce le tradizioni e la ricchezza culturale nata nel corso dei secoli dall’esperienza viva del contatto con la natura e dalle esigenze private, intime e spirituali; quella terra che diventa quasi un paradigma di ogni terra e il cui passato, che affonda nel mito, celebrato in più opere dal grande poeta di quei luoghi, D’Annunzio, diventa il modello di un passato comune, in cui ognuno può cercare le proprie autentiche radici, un passato fatto di umanità e natura, di spiritualità e lavoro, di certezza che per l’uomo, in mezzo a travagli, fatiche e sofferenze, la vita può diventare anche fonte di infinita felicità. C’è quella semplicità che ci appartiene intimamente, quel qualcosa che tutti sappiamo e desideriamo ma che l’autrice mette su carta così amabilmente e chiaramente da ridestare ad un tempo coscienza e riflessione; di fronte a tanta semplicità non è possibile nascondere ciò che siamo: la purezza della scrittura, delle idee, delle descrizioni ci sprona a guardarci in trasparenza, sotto la spinta di quella sincerità con cui le emozioni si rivelano all’interno delle narrazioni.
In questo libro c’è il substrato di un profondo, convinto umanesimo: nulla di ciò che è umano mi è estraneo, dal mito al rito, dal cibo alla preghiera, dallo scorrere dei giorni della vita al ricordo, dalla speranza ai sentimenti.
Rapiti in un sogno che, pur circondato dalla modernità e dalle sue sollecitazioni, ci riporta alla leggendaria lontananza del mito fuori dal tempo, ci rendiamo conto che tutta la bellezza di cui la scrittrice ci fa dono con le sue descrizioni grondanti di suoni, colori, visioni porta un nome, una sorta di motivo conduttore di questi dipinti e rievocazioni e di questo messaggio: amore.
Tutto ciò che della vita fa parte prende significato, colore, anima solo sotto il segno del massimo sentimento possibile fra gli uomini: quell’amore che è la traduzione della cristiana carità, ossia rispetto, comprensione, aiuto reciproco, solidarietà e affetto l’uno verso l’altro, perché tutto questo sembra davvero essere il vero patrimonio dell’anima, che si cela sotto la lunga tradizione dei popoli e le vicende delle famiglie e dei singoli individui, l’amore che tutto crea e tutto muove sull’onda della storia umana e forse non solo umana.
Treviso, 3 aprile 2014
A Daniela Quieti,
con profondissima stima e infinita ammirazione
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/echi_di_riti_e_miti.html
La rivincita di Tommy
Il dramma del bullismo omofobico
La scrittrice Monica Florio affronta con questo romanzo il tema attualissimo e difficile del bullismo omofobico. Con rigore, vigore, poesia ed ironia, per raccontare, denunciare e testimoniare di un male del nostro tempo e della nostra società che sembra non trovare rimedio. E’ un libro contro l’intolleranza. Pur rivolgendosi ai giovani, dovrebbe essere letto dagli adulti, in primis genitori e docenti.
Il mondo attuale pare dominato da una forza tirannica che estende il suo dominio indistintamente e in forma diversa su tutti: la paura. È la paura per la propria incolumità, fisica e psichica, per la propria sopravvivenza economica e sociale, la paura di perdere qualcosa, la paura di essere (con la conseguente tendenza a nascondersi e uniformarsi alla massa), la paura dell’ignoto, e in particolare di ciò che identifichiamo come diverso da noi o da un ipotetico modello stabilito nell’opinione collettiva. Il miglior rimedio per la paura è la conoscenza: cito a memoria, forse imperfettamente, una frase di J. Verne che sembra quasi il manifesto del recente romanzo illustrato “La rivincita di Tommy” di Monica Florio (La Medusa Editrice, 9.20 euro, pp. 172).
Descrivere, raccontare, denunciare – con tono ora lieve, ora vigoroso, ora poetico, ora ironico, col sorriso sulle labbra e talvolta l’angoscia nel cuore – la paura della diversità, paura che nasconde al suo interno una corruzione sociale e personale molto più profonda, significa anche richiamare l’attenzione su ciascuno di noi e sulle nostre opinioni, sensibilizzare su un problema molto più diffuso di quanto si voglia ammettere, e quindi lottare contro una realtà spesso taciuta, quando non addirittura negata, perché costringe inevitabilmente al confronto.
Ma la conoscenza è ricerca, impegno, scoperta e confronto: l’autrice, con una scrittura sobria e concreta, dall’elegante ed immediata espressività, ci invita ad assumere la responsabilità di riflettere, il che conferisce valenza educativa ad un romanzo rivolto principalmente, ma non solo, al mondo della scuola.
E tuttavia il rimedio della paura, la conoscenza, suscita anch’esso il timore di scoprire e riconoscere i propri errori e di scontrarsi con la necessità di mettere in discussione le proprie certezze. Rifiuto di conoscere e di essere, fuga dalla propria interiorità e dalla comprensione di dati oggettivi che dovrebbero essere acquisiti quale patrimonio comune e che invece non lo sono ancora, tanto meno oggi (il rispetto e l’inviolabilità fisica e psichica di ogni essere umano, l’assurdità dell’aggressione gratuita a chi non costituisce un pericolo, ma che, per la sua specificità fisica o psichica, che lo distingue dal gruppo, è percepito come tale, quale sollecitazione indiretta e involontaria al risveglio di quella coscienza che si vuole silenziosa, assopita, anestetizzata): tutto ciò è un tarlo che mina la vita sociale moderna, a partire proprio dalla scuola e dal mondo adolescenziale, che oggi più che mai brancola nell’oscurità dell’incertezza del futuro, di un’impossibile progettualità di vita, giacché le esigenze della realtà attuale mutano così rapidamente, giorno per giorno, da impedire qualunque prospettiva a lungo raggio. L’unico rimedio che gran parte di questo mondo conosce è l’arroccamento su un comodo conformismo che eviti la fatica di esporsi, sotto la protezione del paravento dell’opinione comune e del sentire collettivo.
In queste condizioni, il primo che alzi la voce e affermi di essere il capo (nel romanzo si chiama Diego), lo diventa veramente, grazie alla passività dei suoi sostenitori, spalmati letteralmente sulle sue posizioni, e la vittima da lui scelta, in base a principi che trovano origine solo nei problemi irrisolti e nelle repressioni subite nel corso di un vissuto affondato nel suo inconscio, diventa il nemico di tutti, il catalizzatore di quella violenza trattenuta che vorrebbe essere, per un adolescente, il grido di affermazione al mondo della propria esistenza, identità, volontà, ma che viene quasi sempre taciuto o messo a tacere, e quindi trova un’altra via di sfogo.
La vittima, il nemico, è Tommy la cui indole – caratterizzata da un’emozionalità acuta e ricettiva, con una forte componente femminile, accresciuta dal continuo confronto con una realtà familiare apparentemente simile a tante altre ma, per un tredicenne, problematica e fonte di incessanti stimoli non sempre positivi – lo rende indifeso, facile preda di ingiustificati quanto immotivati attacchi a sfondo omofobico, nell’indifferenza quasi unanime del mondo degli adulti deputati a vigilare sulla crescita dei ragazzi a loro affidati. Tommy è vulnerabile perché inizialmente neppure lui ha ancora piena coscienza della propria realtà interiore, psichica e sessuale, e quindi non può ancora difendersi dalle aggressioni, soprattutto psicologiche, tendenti ad isolarlo, umiliarlo, accrescere la sua sensazione di incertezza e diversità. Ma queste provocazioni, destinate a ferire profondamente la sua sensibilità, causano fortunatamente una reazione, che è soprattutto presa di coscienza del sé e quindi accettazione della propria natura, rispetto per il proprio essere ed autostima. E tale reazione è seguita passo dopo passo con affettuosa simpatia dall’autrice, tanto che il lettore attende con trepidazione di vedere come si attuerà quella rivincita annunciata dal titolo.
La storia, infatti, è una vicenda di crescita interiore, risultato di un travagliato e talora drammatico periodo di difficoltà, e della ricomposizione di un mosaico di tessere, che poi sono tutti coloro che prendono parte all’esistenza del protagonista e ne accompagnano la vicenda. Sembra quasi che, nel momento in cui Tommy trova la forza di reagire, riconquistare il rispetto, affermare la propria dignità, come per un effetto a catena tutto rientri nell’ordine positivo delle cose: la famiglia e i rapporti fra i genitori; lo stesso persecutore Diego, ridimensionato e ridotto ad un rango inferiore (con la tipica reazione psicologica dello spaccone scornato intimamente debole, delineata in pochi, brevi, efficacissimi tratti dialogati); il resto della classe, soprattutto il traditore Davide, confinato nell’isolamento del marchio d’infamia, corrispondente maschile della traditrice Annalisa, che aveva rinnegato l’amica Stella (vittima anch’essa di bullismo omofobico e grande amica di Tommy, che alla sua forza d’animo si è ispirato per compiere il suo percorso) e da questa ovviamente rifiutata dopo il suo tardivo pentimento.
È come una moderna fiaba a lieto fine, una fiaba radicata in una realtà attuale della quale fanno parte supereroi e social network, mode ed abitudini giovanili, vuote e inconsistenti realtà familiari; ma tra i personaggi, adulti e ragazzi, prigionieri di un immobile conformismo nel quale paiono recitare un copione già scritto, qua e là spuntano delle luci, le uniche luci di speranza in una realtà priva di futuro, a segnare il cammino della storia: Lorenzo, il padre di Stella, zia Giacinta, Erminia e gli amici extrascolastici di Tommy.
Ma è soprattutto lui, il protagonista, ad indicare la strada giusta poiché, a fronte dell’ammirazione incondizionata del fratello minore, con lo scrupolo quasi di esserne degno, e dell’assenza paurosa di genitori ed insegnanti, intraprende un percorso di rinascita che viene tutto dalla sua interiorità. Forse non è ancora il passaggio verso l’età matura, ma quello di Tommy è un cammino di autentica vittoria, un rinnovamento attraverso la ricerca interiore, una presa di coscienza del valore del proprio essere, che poi si esprime con i mezzi più appariscenti ed immediati che un tredicenne possa trovare: rispondere alle provocazioni picchiando più forte del provocatore. E ciò che vince con Tommy non è la forza bruta (è molto più debole e mingherlino del suo avversario, nonostante frequenti una palestra) ma da un lato è l’astuzia del saper sferrare il colpo giusto al momento giusto (ottimo risultato della frequentazione della palestra) dall’altro la forza della propria consapevolezza e dell’accettazione di sé. La considerazione di cui è fatto oggetto dopo la sua rivincita, in classe come a casa, è la stima non per colui che ha picchiato più forte ma per colui che ha vinto la paura, l’apprezzamento dovuto a chiunque abbia difeso non solo sé stesso ma un principio naturale, umano, razionale, la legge del rispetto e della civiltà, del diritto di ciascuno di essere ed esistere nella pienezza della propria identità, senza discriminazioni.
Certo, rimane sconvolgente il fatto che si debba tornare a ribadire quanto nella figura di Tommy vi sia di profondamente umano, nei suoi gusti, nelle sue emozioni, nel suo isolamento iniziale, e di come non dovrebbe neppure esistere questione riguardo il diritto al rispetto dell’uomo in quanto tale, in tutte le sue manifestazioni. Dovrebbe essere una conquista acquisita del pensiero e della realtà attuale, che invece sta facendo emergere una chiusura progressiva di ogni relazione umana, intravedendo nell’altro, a maggior ragione se diverso dai nostri paradigmi, un potenziale nemico, pronto a farci del male; e se per noi il male è la necessità di guardarci davvero dentro, allora abbiamo già iniziato, a grandi passi, un cammino verso un’involuzione spaventosa.
Ho scritto che la battaglia di Tommy è ancor più significativa e vincente perché combattuta da solo, avendo certamente davanti a sé dei modelli reali, gli amici Gabriele e Stella, e fantastici, i supereroi che tanto ama, ma che non possono combattere al posto suo, e tuttavia privo della presenza e del sostegno del mondo degli adulti. Genitori, insegnanti e adulti in genere, salvo rare eccezioni, non fanno proprio una bella figura in questa storia, nel confronto col mondo adolescenziale, vuoi per le esigenze moderne che li tengono lontani dalla famiglia, assorbiti da impegni professionali che non di rado deprimono e avviliscono, vuoi per una sorta di malinteso conformismo, apatico e rassegnato, che contraddistingue una generazione, che poi è anche la mia (anch’io ho una figlia quasi coetanea di Tommy), cresciuta in una relativa sicurezza, con la speranza, che era quasi certezza, di un costante miglioramento, ed ora preda dell’ansia per il futuro proprio e dei propri figli.
Ed allora ci si rifugia nelle vecchie convinzioni, in quei luoghi comuni che non possono più reggere: e quanti adolescenti, allora, abbandonati a loro stessi e privi della forza d’animo di Tommy, rimangono vittime di quest’indifferenza ad un tempo volontaria ed involontaria, travolti da soprusi, discriminazioni, violenze: a scadenza si leggono notizie di suicidi o atti violenti compiuti o subiti da ragazzi di quell’età. Agli adulti il mondo adolescenziale fa paura e istintivamente ne rifuggono, anche se è quello dei loro figli: con un geniale ribaltamento di prospettiva, l’autrice ci pone di fronte ad un adolescente che fa crescere i suoi genitori, quasi strappando loro quel blocco emotivo che aveva costruito in loro la paura: la paura di fare i conti col proprio passato di bullo per il padre (che ovviamente non poteva tollerare di vedere nel figlio il riflesso di colui che da ragazzo egli stesso aveva maltrattato, e quindi doveva negare l’evidenza): la paura di prendere atto che la propria vita sociale, sentimentale e familiare non è quella che aveva desiderato e sperato, per la madre.
Nell’osservazione e descrizione di queste dinamiche, l’autrice attinge ad una conoscenza attenta della realtà e dei suoi complessi rapporti. Tale esperienza diretta conferisce alla narrazione quell’aspetto formativo, non limitato ai ragazzi, ai quali questo testo potrebbe offrire anche un ottimo modello di scrittura chiara ed essenziale, ma si estende a maggior ragione agli adulti, di cui sfila un campionario talora odioso, talora apprezzabile, talora patetico, nel quale si può riconoscere uno smarrimento pari a quello del mondo giovanile, di fronte all’elemento di diversità, in questo caso l’omosessualità. A parole si è tutti liberali, tolleranti, aperti, ma poi, quando l’idea astratta prende le sembianze concrete del figlio, del nipote, dell’allievo, dell’amico dei figli, allora cambia tutto, allora non lo si può dire e si diventa paurosi, ridicoli, ipocriti.
E la paura si alimenta di sé stessa ed è all’origine di danni, a volte irreparabili, della rottura di rapporti d’amicizia, della spaccatura all’interno delle famiglie, dell’omofobia, del razzismo, fino alle guerre fra i popoli.
La scheda didattica di cui è corredato il libro, ben lungi dall’essere una semplice appendice, per la cura con cui è redatta e la semplicità e precisione con cui divulga dati e nozioni dei quali chiunque sia oggi a contatto con il vivere sociale, soprattutto giovanile, non può più fare a meno, ne costituisce una fondamentale integrazione, alla luce della quale è possibile leggere e rileggere la storia di Tommy, cogliendo sia le reazioni degli adulti che il comportamento dei bulli da un’angolazione più tecnica, come un prototipo di tante storie simili e con la consapevolezza che proviene da una sia pur minima conoscenza dell’argomento.
E, per tornare all’inizio, se conoscere è anche vincere la paura, questo libro porta avanti davvero un impegno di diffusione, divulgazione, ricerca di conoscenza, perché tutti coloro che avranno la fortuna di leggerlo e di rifletterci, potranno vedere sotto un aspetto diverso quelle realtà che, per ignoranza, presunzione, ipocrisia, troppo spesso continuano a suscitare immotivate, pericolose paure.
http://www.literary.it/dati/literary/p/pierfederici_ale/la_rivincita_di_tommy.html